Festival di Cannes 69:

un’ indagine all’ombra del red carpet

di Francesca Pradella

La casa del futuro

Parlate con operatori video, fotografi o giornalisti e la cantilena sarà sempre la stessa: “ Il nostro mestiere sta morendo”.

E mentre questo peana degli addetti ai lavori echeggia ai lati del tappeto rosso, su di esso le star, più o meno ignare, proseguono verso la scalinata del palazzo, olimpo figurato per divinità dal portafoglio enfiato che non hanno troppo da pensare a come arrivare a fine mese.

“Un tempo, eravamo dei privilegiati, ben pagati.

Ora, anche solo vedere qualche soldo, è già tanto “confessa un collega che da anni copre eventi di questo calibro. Parole che aiutano a far svanire lo stereotipo romantico del fotogiornalista, ormai pedina di feroci agenzie fotografiche, fast food di informazioni folli che devono essere buttate nell’etere prima di tutti, meglio di tutti.

“ Il lavoro è massacrante. Al mattino abbiamo i photocall ( l’arrivo delle star della giornata sulla terrazza del Palais des Festivals , dove le celebrities sono vestite più “casual “ e dopo il quale hanno luogo le conferenze di presentazione coi giornalisti, che fanno loro domande sul film, ndr ). Dalle 14 alle 23 ci sono i red carpet.

Nelle pause tra uno e l’altro c’è la corsa in sala stampa per editare, scrivere e spedire. È un lavoro di velocità, forse ancor più di qualità oramai. “ mi dice una professionista più matura, che condivide con altri tre colleghi un monolocale dall’affitto stellare, solo, ovviamente, in quei giorni.

Sì, mi ci metto anche io: c’è senso di ansia, fetore di precarietà, eco di deumanizzazione nel nostro mestiere. Seduta in una delle postazioni con vista mare, il sole sbarazzino che investe la tastiera del computer, osservo la giungla che mi circonda, le facce dei miei colleghi: sono stanchi, sono elettrici, sono concentrati. Io non riesco a non ammirare gli invisibili piedistalli dell’informazione, i pedoni della scacchiera mediatica che si battono con tutta l’anima per un mestiere sempre più impossibile e mal pagato. C’è il coraggio di chi ci crede, di chi ci spera, di chi non si arrende.

Chi ha nelle rughe del volto i tempi d’oro del mestiere, dove la paga era certa e gli stimoli ancora di più.

Per un attimo immagino la sala piena di automi seduti al nostro posto, i gradini intorno alle star, pieni di robot che scattano foto con gli occhi: per fortuna, non è ancora giunto quel momento e, se il mondo saprà aver cura del giornalismo, mai arriverà.

Arrivo al Palais, ritiro il mio accredito da questo francese che già casanoveggia nei miei confronti.

Ma è un raro accenno giocoso in un ambiente molto serio, rigido, che punta alla totale efficienza. Il primo giorno di lavoro effettivo, arrivo sul posto e mi diventa chiara la necessità di armarsi di pazienza: i controlli quotidiani, sono la norma. Aprire la borsa di un fotografo e, praticamente, svuotarla, vi assicuro non ha niente di divertente.

Se allora provavo un certo astio per la cosa, oggi, qui, a distanza di tempo, gliene sono profondamente grata.

A fronte degli avvenimenti di Nizza, quel tedioso percorso a ostacoli fatto di rimozione di bottigliette d’acqua, estrazioni di laptop convulsive, sbirciate nella trousse dei tuoi farmaci ci ha, probabilmente, salvato più volte la vita.

Cannes è da sempre in lotta con Venezia, che rimane la mostra del Cinema più antica al mondo e che, negli ultimi anni, ha presentato film che hanno goduto di enorme successo in termini sia di pubblico che di critica, con numerose statuette assegnate.

Difficile, però, paragonarli: non sarebbe giusto.

Non sono solo festival ma veri e propri fenomeni di costume, specchio distorto dei tempi che viviamo, polso dello stato d’animo della società.

I festival non sono solo red carpet e celebrities: sono una enorme macchina che corre al massimo della velocità possibile, supportata da centinaia di addetti, personale, agenti di sicurezza. L’apparente frivolezza dell’argomento, il cinema appunto, tende a fuorviare dall’importanza che tutto questo ha per chi li segue: mai come ora, questa industria può avere la potenza di educare, di inviare messaggi, di raggiungere occhi ed orecchie in zone estreme e remote. Certo, potrei parlarvi di quanto è angelica Julia Roberts che incede scalza sul tappeto rosso; degli sguardi d’amore melensi ma perfettamente a favor di camera di Amal e Clooney; o del fatto che anche le modelle di Victoria’s Secret hanno i brufoli e inciampano su quei tacchi vertiginosi. Dell’opulenza che si concentra nelle hall degli hotel, dei party esclusivi nelle loro terrazze, dei disperati che devono esserci per dire di esserci stati. È indubbiamente interessante. Vi terrebbe ben incollati a questa pagina. Ma forse è il caso, anche da parte del lettore, di pretendere di più. O, quantomeno, di spostare l’attenzione oltre l’ovvio. Oltre la luce. Nell’ombra.

E, vi prometto, che alla fine di questo articolo, queste due parole un po’ melodrammatiche, troveranno un senso. Nell’oscurità dove troverete persone che, grazie a tutta questa apparente superficialità, portano a casa uno stipendio. Queste sono, per mia stessa sorpresa, la cosa che più mi ha colpito: un esercito silenzioso che si occupa di pulire, nutrire, guidare i partecipanti in questo gradevole labirinto cinematografico. Nessuno ne parla e nessuno ne scrive. Io mi incuriosisco e li interrogo con un interesse che li lascia sorpresi, convinti del loro status di invisibilità. Si percepisce una passione genuina, un entusiasmo dell’esserci, un onore di essere una minima rotella dell’abnorme ingranaggio. Non è bastato nemmeno uno dei miei miti dell’infanzia, Spielberg, a distrarre i miei occhi dal backstage del festival. Mi sono ritrovata ad osservare il lavoro minuzioso dei tecnici o i piedi delle hostess di sala, vestite come la Marianna di Francia, sempre in movimento con tanta grazia e una notevole capacità di mascherare stress e fatica. O il paziente staff tecnico della sala stampa, pronto ad affrontare lo sbottare dei giornalisti o fotografi al primo problema col wi-fi.

Le inservienti dei bagni, i “passatori” di aspirapolveri, le adoratissime ragazze-prepara-caffè. Gli spazzini del tappeto rosso, i cuochi della mensa del palazzo, le distributrici di volantini informativi delle giornate. Per citarne alcuni.

Penserete che sono disturbata. Che di tutto il clamore che è Cannes io vi venga a parlare di queste inezie.

Mi scuso. Sento il dovere di farlo. Farvi capire che sì, abbiamo ancora bisogno dei Festival e il motivo è semplice: il cinema è un mezzo potentissimo per influenzare la mente e il cuore. È fatto di persone armate di pazienza, passione e pronte a sacrifici che si occupano, più o meno direttamente dei film. Arriva lontano, questo mezzo di comunicazione, come forse poco altro nel nostro presente. E nella mia ingenuità, mi piace pensare che possa, magari, arrivare a salvarci. Le pellicole diventino colombe di pace, capaci di volare negli angoli più tetri del mondo. Quelli dell’odio irrazionale, della vendetta violenta. Sempre più direttamente. Il cinema sta sentendo suonare la sveglia del lato sfortunato del mondo già da un po’, come altri settori. È nel suo stesso interesse non ignorarla.

Ed eccomi qui, come accennato nelle righe precedenti. Una spiegazione a tutto questo, a questo articolo che ha trascurato i vostri amati attori, registi, attrici.

Nella mia ultima sera in Francia, dopo il Festival di Cannes, mi sono fermata a Nizza. Ho camminato sulla Promenade Des Anglaise dopo anni di assenza. I suoi lampioni, snelli arbusti metallici diffusori di luce, indicano un lungomare dal sapore pacifico, un largo marciapiede, dove risuona la dolcezza della risacca. Il faro brilla nel buio, c’è gente gioiosa che passeggia e sportivi che vi pedalano in notturna. Quello che è successo un mese dopo, un incomprensibile ed angosciante strage di innocenti, mi ha creato un forte disagio per la mia banale decisione di compiere quei passi, in quella sera. Il mondo è sempre più malato di un bipolarismo di luci e ombre, come quelle dei lampioni: piccoli sprazzi illuminati, alternati a profondi angoli di buio. Possiamo continuare a saltarli, ma non svaniranno. Il veleno che attraversa l’occidente, non si può più pretendere che non sia già in circolo. Abbiamo la responsabilità di camminare anche nel buio. Di affrontarlo. E chissà che la natura, nel suo osservarci impotente, trovi il modo di perdonare la nostra comoda ignoranza.

Spero mi perdonerete perché, con ancora quella meravigliosa passeggiata negli occhi, non sono riuscita a sfornare un pezzo sui vispi occhi pieni di vita di Jodie Foster, l’incedere stanco e disorientato di uno sballottato e anziano Robert De Niro, il livello dei decibel raggiunto dalle urla delle fan alla vista di Ryan Gosling.

Per Vostra fortuna, ho portato le mie fotografie con le quali potrete stilare le feroci classifiche del “meglio e peggio” che, non nego, mentalmente e in diretta faccio sempre anche io.

 
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