FAMILY BUSINESS FORUM

A TREVISO IL PIÙ IMPORTANTE APPUNTAMENTO SUL CAPITALISMO FAMILIARE

L’edizione 2022 del Family Business Forum si è tenuta nei giorni  20 e 21 ottobre, negli spazi di Sant’Artemio, sede della Provincia di Treviso,  ideato, organizzato e diretto dalla giornalista Maria Silvia Sacchi in collaborazione con Assindustria Venetocentro e Community e con il Patrocinio della Provincia di Treviso.
Incontro  economico e culturale era sulle aziende familiari e sulle loro dinamiche.
Family Business Forum ha visto partecipazione di alcuni dei più importanti imprenditori e manager italiani e di autorevoli esponenti del mondo accademico, con l’obiettivo di creare uno spazio aperto di  condivisione e riflessione sulle molteplici questioni che il tessuto economico italiano, di cui il capitalismo familiare è l’ossatura, è oggi chiamato ad affrontare. Il diritto di famiglia- Rapporti patrimoniali familiari” aveva il focus su «Diritto e famiglia. Regime patrimoniale. Matrimonio/patrimonio: la situazione dei conflitti famigliari secondo giurisprudenza. Dal matrimonio alle legislazioni sul “dopo di noi”, i punti centrali del diritto di famiglia sull’impresa familiare. Le norme all’esame del parlamento».

Perché il diritto di famiglia deve interessare una impresa familiare?
L’«impresa familiare» è un istituto giuridico introdotto nel Codice Civile dall’art. 69 della L. 19 maggio 1975, n. 151 e disciplinato dall’art. 230-bis, secondo cui: «Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato».
In passato, il lavoro dei familiari riceveva una tutela limitata, venendo considerato come prestazione a titolo gratuito: l’esistenza di un rapporto di lavoro non era presunta, ma doveva essere provata al fine di dimostrare il diritto alla retribuzione.
Con la nascita dell’impresa familiare è stato introdotto nel nostro ordinamento il riconoscimento, in capo al familiare che collabora nell’impresa, dei principali diritti economici:
- mantenimento;
- partecipazione agli utili in proporzione alla qualità e alla quantità del lavoro prestato e a una quota dei beni acquistati con gli utili stessi che, invece di essere distribuiti, vengono reinvestiti;
- incrementi aziendali, anche in ordine all’avviamento e sempre in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.
Il coniuge, il parente o l’affine che lavorano nell’impresa familiare hanno anche poteri decisionali sulle scelte di maggiore importanza. Infatti, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., «Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa».
A tal proposito occorre specificare che, ai fini del calcolo della maggioranza, i voti dei partecipanti all’impresa hanno tutti lo stesso valore e non esistono quote. Per coloro che non hanno la piena capacità di agire il voto è espresso da chi esercita la potestà su di essi.
Attraverso l’introduzione l’art. 230-bis c.c., in un’autonoma sezione del capo dedicato ai rapporti patrimoniali della famiglia, il legislatore con la Riforma del 1975 è intervenuto a disciplinare un fenomeno largamente diffuso nella realtà delle imprese, soprattutto di piccole dimensioni. Il legislatore non ha inteso disciplinare un nuovo tipo di impresa, bensì apprestare tutela al familiare che offre il suo contributo all’attività economica di un congiunto. La scelta è che l’impresa non costituisce l’oggetto della regolazione, ma il presupposto per l’applicazione della norma di cui all’art. 230-bis c.c.
L’inciso iniziale è chiara testimonianza dell’intento di salvaguardare l’autonomia negoziale, sicché la relativa disciplina è destinata a trovare applicazione solo in via suppletiva laddove familiare e imprenditore anche per facta concludentia non abbiano provveduto a disciplinare la prestazione di lavoro.
Tale impostazione è del resto propria dell’intera disciplina dei rapporti patrimoniali della famiglia, la cui norma d’apertura rivela anch’essa una chiara natura suppletiva (art. 159 c.c.).
Non può negarsi che i vincoli affettivi implichino sempre più spesso l’emersione di interessi patrimoniali, la regolamentazione dei quali ben può avvenire mediante il ricorso al contratto quale strumento di composizione di conflitti in ordine a siffatti interesse.
Attribuendo ai protagonisti della vicenda lavorativa, ancorché legati da vincolo di coniugio, parentela o affinità, il potere di autoregolamentazione secondo i modelli normalmente adottati al fine di disciplinare le molteplici forme di collaborazione che possono caratterizzare l’attività d’impresa, il legislatore conferma il rilievo che assume lo svolgimento di ogni attività depauperante e la conseguente necessità che essa riceva riconoscimento come valore di scambio (il che può avvenire per effetto di specifico accordo delle parti o, in mancanza, mediante l’applicazione della norma di cui all’art. 230-bis c.c.).
Il fenomeno dell’impresa familiare, sebbene ricorrente nella realtà imprenditoriale italiana, raramente vede i familiari, che non abbiano fatto uso dell’autonomia negoziale per indirizzarsi verso schemi differenti di regolamentazione del rapporto, invocare l’art. 230-bis c.c. per disciplinare l’esplicazione del medesimo.
Il vincolo affettivo sovrasta sovente la giuridicità del rapporto, sicché la collaborazione prestata da un soggetto a favore di un familiare imprenditore il più delle volte risulta permeata in modo preponderante dall’affectio e, per questo motivo, rimane nella sostanza sfornita della tutela prevista dalla norma. E, invero, la disciplina dell’impresa familiare viene per lo più invocata all’esito di litigi tra familiari, in particolare successivamente all’insorgere della crisi coniugale.
La Legge Cirinnà, con l’art. 1, comma 46, ha introdotto l’art. 230-ter, che disciplina i «Diritti del convivente» e stabilisce quanto segue: «Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un  rapporto di società o di lavoro subordinato».
Quali sono i passaggi delicati della famiglia che hanno un impatto sull’impresa?
La transizione generazionale rappresenta un momento critico nella vita dell’impresa. Assicurare la continuità della gestione nel passaggio da una generazione all’altra è un’esigenza molto sentita dalle imprese italiane. In un’economia caratterizzata dalla presenza di molte aziende di famiglia, il passaggio generazionale è talvolta vissuto con difficoltà e le liti insorte tra gli eredi sono spesso causa della crisi dell’impresa.
Nella maggior parte dei casi vi è un imprenditore/fondatore unico responsabile dell’azienda, in capo al quale sono concentrate tutte le competenze e l’assunzione delle decisioni.
Da ciò scaturisce il problema del passaggio di testimone dall’imprenditore/fondatore ad altri soggetti della famiglia in vista del proprio ritiro dal mondo del lavoro, del sopraggiungere di un’eventuale incapacità fisica o psichica e infine della propria morte. Non sempre è agevole per l’imprenditore individuare i continuatori dell’impresa con tranquillità. Le difficoltà sono a volte di carattere oggettivo, a volte di carattere morale.
Tra gli ostacoli che si possono presentare ad esempio vi sono: l’assenza di successori capaci; l’impossibilità di prevedere o di stabilire chi tra i discendenti o i familiari sia maggiormente idoneo; la giovane età dei discendenti; il desiderio di non “fare differenze” tra i figli, al fine non creare in conflitti in seno alla famiglia (il che porta a volte a scelte basate sui legami di sangue e non sull’effettiva capacità imprenditoriale); il desiderio di rispettare la libertà dei discendenti in relazione alle loro scelte di studio o professionali; la scarsa propensione alla delega e il desiderio di rimanere al comando il più a lungo possibile (l’imprenditore è spesso un “self-made man” e si identifica completamente con l’impresa), dal che deriva spesso la sottovalutazione del problema.
A seconda della composizione della famiglia e dell’attitudine dei familiari dell’imprenditore, la successione avviene solitamente secondo uno dei seguenti schemi:
- successione completa: dopo il passaggio generazionale, l’impresa rimane all’interno della famiglia sia quanto alla proprietà, sia quanto alla direzione e gestione.
Ciò presuppone che esistano uno o più eredi capaci ed intenzionati alla continuazione;
- successione nella proprietà ma non nell’impresa: dopo il passaggio generazionale, in assenza di eredi o familiari idonei alla gestione e direzione dell’attività, la stessa viene affidata ad amministratori esterni, mentre la famiglia conserva la proprietà e controlla l’operato dei managers attraverso le decisioni assembleari e altre soluzioni di controllo che passano anche attraverso la «governance»;
- successione esterna alla famiglia: in assenza di discendenti o nel caso in cui nessuno di essi abbia capacità o velleità imprenditoriali, l’imprenditore può decidere di alienare l’azienda di famiglia a terzi o adottare altri passaggi che possano consentire nel tempo di rivalutare la decisione prima di una scelta definitiva.
L’importanza del momento del passaggio generazionale è stata evidenziata da tempo dall’Unione europea. L’interesse comunitario al problema risiede nel fatto che la cattiva gestione di tale momento fisiologico comporta spesso la paralisi dell’attività di impresa, con conseguente decozione e scomparsa dell’impresa stessa e l’insorgenza di costi sociali, quali la perdita di posti di lavoro oltre a ricadute negative sugli altri operatori di mercato, con conseguente innesco di un deleterio effetto domino.
In considerazione di tale problema, la Raccomandazione della Commissione CE n. 94/1069 del 7 dicembre 1994 sollecita gli Stati membri a razionalizzare le norme successorie che regolano il trasferimento delle imprese di piccole e medie dimensioni alla morte dell’imprenditore, nonché a predisporre le modalità necessarie ad indurre l’imprenditore a preparare la sua successione finché è ancora in vita.
Il tema è stato oggetto anche del Regolamento CE n. 70/2001 e affrontato a più riprese dal Comitato Economico Sociale Europeo, che ha fatto pressione sui Paesi membri, tra l’altro, per un alleggerimento della tassazione, attraverso il riesame dei regimi fiscali e la revisione delle tasse di successione che scoraggiano il processo successorio nell’impresa.

Chi possiede una impresa deve pianificare la sua vita familiare? Se sì, come?
Tema fondamentale è quello della preservazione e delle modalità di trasmissione delle imprese di famiglia. L’ordinamento mette a disposizione diversi strumenti per la gestione del passaggio generazionale, dalla donazione (con o senza riserva di usufrutto vitalizio), anche indiretta, al patto di famiglia, fino alle polizze sulla vita e alle numerose strategie attuabili in ambito societario, per consentire un passaggio graduale e soprattutto garantire la continuità dell’impresa, distinguendo la gestione dalla proprietà (holding di famiglia, azioni a voto plurimo nella Spa, particolari diritti sull’amministrazione o quote differenziate nella Srl, fusioni e scissioni).

 
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