Inaugurazione Anno Giudiziario 2022

IL 22 GENNAIO 2022 SI È SVOLTA L’INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO PRESSO L’AULA MAGNA DEL PALAZZO DI GIUSTIZIA DI MILANO. INTERVENTO DELLA PRESIDENTE DELLA CORTE DI APPELLO DI MILANO, FRANCESCA NANNI

TESTO TRATTO DAL SITO DELLA CORTE DI APPELLO DI MILANO - MINISTERO DELLA GIUSTIZIA -

Prima parte -

Nel periodo preso in considerazione il contesto epidemiologico da COVID-19 ha continuato ad imporre agli uffici giudiziari scelte organizzative di carattere particolare, a volte basate su istituti e prassi esistenti, altre volte invece con caratteristiche del tutto nuove. L’avvio della c.d. “fase due”, prevista dall’articolo 83 del decreto-legge 17 marzo 2020 n. 20 a partire dal 12 maggio 2020, ha fatto registrare un difficile contemperamento fra le esigenze di prevenzione dell’epidemia e la graduale ripresa dell’attività ordinaria; gli uffici hanno risposto in modo corretto ed esemplare.
Con riferimento all’attività delle singole Procure, il raffronto fra i dati del 2020 e quelli dell’anno precedente indica una riduzione delle più marcata in quelle di maggiori dimensioni, soprattutto Milano e Busto Arsizio; difficile dire se tale fenomeno è dovuto solo ad una drastica diminuzione di alcune tipologie di reato, come ad esempio i furti in abitazione, o se è stato determinato anche da contingenti difficoltà organizzative. Un dato comunque confortante deriva dalla analisi delle pendenze finali delle singole Procure, alcune in diminuzione, altre in aumento ma non significativo; il buon lavoro svolto nel periodo precedente, con una conseguente riduzione delle pendenze finali, unito alla contrazione delle sopravvenienze, ha contribuito a realizzare tale risultato. Quanto all’attività giudiziaria presso l’ufficio di secondo grado, il raffronto dei dati su base annuale fra 2020 e 2019 indica una diminuzione notevole: nei primi sei mesi del 2020 precisamente -33% nelle udienze penali davanti alla Corte di Appello, -25% nelle udienze della sezione minori, -72% nelle impugnazioni di merito, - 60% nei ricorsi in Cassazione, -21% nei visti su sentenze penali, invariate le udienze davanti al Tribunale di Sorveglianza. È necessario comunque sottolineare che l’attività della Procura Generale quale ufficio di secondo grado, sia nel settore della partecipazione alle udienze, nella esecuzione penale ed in quella relativa agli affari internazionali, dipende fondamentalmente dal numero di affari concertati o trasmessi dagli altri uffici, in particolare dalla locale Corte di Appello e conseguentemente risente dell’andamento di questi ultimi. Analizzando gli effetti che la pandemia in corso ha avuto e continua ad avere sull’attività giudiziaria, come su quasi tutti gli aspetti della nostra vita di relazione, ritengo di poter comunque esprimere una cauta valutazione ottimistica dei segnali provenienti dal distretto: una volta abbandonati inutili e anacronistici interessi di categoria, l’esperienza vissuta deve costituire un forte stimolo per la realizzazione di quegli obiettivi partecipati di qualità e benessere organizzativo che sono alla base di ogni serio progetto di riforma o meglio di recupero del sistema in una prospettiva di sviluppo. Purtroppo, analizzando gli strumenti attualmente a disposizione, devo osservare che la riforma della pubblica amministrazione, nel contesto del piano nazionale di resistenza e resilienza, in tema di funzionamento della giustizia prevede un riferimento peculiare alla prospettata “accelerazione dei tempi del processo”, con spiccata attenzione alla giustizia civile. Riguardo alla giustizia penale, le linee operative attengono ad aspetti logistici, tecnologici ed organizzativi, tra i quali s’inquadra il c.d. ufficio per il processo. Viene in sostanza espressamente declinata la volontà di dare ausilio alla giurisdizione nell’ottica del miglioramento della performance, dell’abbattimento dell’arretrato e della riduzione in generale della durata dei processi sia civili e penali. Dal contesto delle considerazioni svolte in materia si evince una centrale volontà di valorizzare le risorse a sostegno degli organi giudicanti, con una scelta sicuramente condivisibile, in un’ottica anche di pragmatismo di tipo anglosassone. In tale quadro, però, la limitatissima considerazione prestata agli uffici requirenti appare disarmonica rispetto ad un progetto che ha di mira il complessivo recupero dell’efficienza. Così, i richiami al potenziamento dello staff del magistrato è riferito alla collaborazione nelle attività collaterali “al giudicare” (e in tale contesto si fa coerentemente cenno alla semplificazione delle assunzioni degli addetti al processo); e, allorché si affronta il tema della riduzione della durata del processo penale, si richiamano istituti ed incombenti afferenti la sola fase del giudizio. Solo un cenno è dato cogliere alla riorganizzazione delle Procure della Repubblica.
Non si approfondisce, però, l’intervento rispetto alle problematiche degli uffici che devono istruire i procedimenti poi da portare all’attenzione del giudicante, circostanza che ha suscitato attenzione e preoccupazione da parte dei Procuratori Generali. Offrire al giudice elementi probatori raccolti in modo corretto, completo e organizzato significa rendere il suo compito più agile e veloce a prescindere dall’esito del procedimento. Fra l’altro, non si considera come il “collo di bottiglia” costituito dal giudizio di impugnazione possa superarsi soltanto con un incremento di produttività delle Corti d’Appello, che determina un corrispondente onere di preparazione e partecipazione alle udienze per i relativi uffici requirenti, ossia le Procure Generali.
È a dir poco ovvio che senza appropriata considerazione per questi uffici – sul piano della dotazione delle risorse e dell’ammodernamento organizzativo e tecnologico – le Procure Generali diverranno a loro volta fattori di rallentamento, tali potenzialmente da paralizzare l’utilità degli interventi di efficientamento delle Corti, risultato inaccettabile per una azione riformatrice che ha come scopo primario il recupero dell’efficienza attraverso la riduzione dei tempi processuali.
L’affievolimento degli aspetti più violenti della pandemia almeno nel nostro paese o forse meglio l’assuefazione ad una forma di costante emergenza sanitaria con conseguente ripresa quasi completa dell’attività ordinaria, ha fatto riemergere con prepotenza i problemi che da anni affliggono l’ordine giudiziario, innanzitutto la eccessiva lunghezza dei procedimenti, a mio avviso solo in secondo piano, nonostante la imponente risonanza mediatica, altri aspetti legati all’organizzazione quali la crisi dell’autogoverno nonché la tanto conclamata perdita di consenso nell’opinione pubblica. Quanto alla lunghezza dei procedimenti, la considero una piaga del nostro tempo, anzi la negazione stessa del servizio che siamo chiamati a rendere e ritengo che vada affrontata con una visione completa delle varie fasi e dei tempi di attesa fra l’una e l’altra fase, spesso immotivatamente lunghi anche a causa di insufficienti risorse nelle segreterie, nonché con spirito di consapevole e sincera collaborazione da parte di tutti gli operatori del settore così come è avvenuto nei primi tempi della pandemia quando, del tutto impreparati, abbiamo dovuto affrontare le prime fasi di una imprevista crisi sanitaria. Visione unitaria delle varie fasi e dei tempi di attesa significa attenzione anche al momento conclusivo del procedimento: dopo il passaggio in giudicato della eventuale condanna il provvedimento deve essere velocemente trasmesso agli uffici requirenti per l’esecuzione delle pene e di quelle importanti misure di carattere sostanzialmente sanzionatorio come ad esempio le confische per equivalente nei reati tributari.
Con riferimento agli altri rischi per la giurisdizione, accompagnati secondo la prevalente narrazione mediatica da generale perdita di prestigio dell’ordine giudiziario, va innanzitutto chiarito che la ricerca del consenso a tutti i costi è e deve rimanere atteggiamento estraneo allo svolgimento dell’attività giudiziaria, compreso ovviamente l’operato del pubblico ministero, soggetto processuale sensibile ma non condizionato dalle esigenze e dalle richieste delle parti. Ciò non significa che non debba essere ricercata quella autorevolezza delle decisioni che è la sola garanzia per mantenere in equilibrio il sistema e che dipende sia dall’operato dei singoli, sia dalla credibilità dell’ordinamento giudiziario adottato. L’innegabile degrado della politica e, ancora di più, l’avvento della cosiddetta società liquida, una specie di interregno in cui è palese l’inadeguatezza dei vecchi modelli ma nello stesso tempo non è ancora chiaro con quali diversi schemi affrontare le nuove sfide, hanno prodotto l’indebolimento delle tradizionali aggregazioni sociali e delle formazioni intermedie; lo squilibrio che ne è derivato non ha assolutamente accresciuto né favorito in alcun modo la legittimazione dell’ordine giudiziario. Senza la pretesa di fornire soluzioni salvifiche, occorre perciò domandarsi perché ciò sia avvenuto e soprattutto da dove si possa ripartire per recuperare almeno in parte il credito fortemente scemato in questi ultimi anni. Un primo e fondamentale miglioramento potrebbe essere conseguito con il rifiuto da parte di tutti gli operatori di ogni forma di ideologia, intesa come estremo sistema concettuale e interpretativo che costituisce la base politica di un movimento o di un gruppo sociale, sistema che spesso ha fortemente condizionato l’agire in giudizio così come i rapporti fra le diverse categorie impedendo o quantomeno rendendo difficile una valutazione obiettiva delle circostanze.
È vero che nell’applicazione della legge i magistrati esercitano comunque un’attività in qualche modo politica nel senso che devono procedere a scelte di valore molto ampie sia per adattare la norma al caso concreto, sia per impostare una strategia che conduca all’accertamento di una verità processuale quanto più vicina a quella fattuale, ma un conto è farlo mantenendosi nei limiti della fisiologia, un conto è operare con pregiudizio nei confronti di coloro che vengono individuati come appartenenti ad uno schieramento amico o nemico e conseguentemente adattare a tale schema tutte le scelte processuali.
Quanto ai rapporti fra le categorie, negli ultimi lustri ad esempio abbiamo spesso assistito ad uno scontro tra gli attori organizzati – magistratura associata e camere penali – sul processo penale e sulle sue funzioni. A partire dalla riforma in senso accusatorio del 1989, larga parte della magistratura ha vissuto il nuovo codice come sbilanciato in favore delle garanzie dell’imputato e ha cercato di riaffermare le esigenze di protezione della collettività; l’avvocatura, per contro, si è prodigata nella difesa di un modello basato sulla centralità della dialettica dibattimentale, concetto fondamentale nel sistema del nuovo codice ma che non si è mai del tutto realizzato nella prassi. In tempi più recenti la contrapposizione ha assunto la forma del conflitto fra giustizialisti e garantisti, rozza espressione con disinvoltura e superficialità applicata sia al mondo del diritto che a quello della politica. Un conflitto a volte sotto traccia ma costante che si è ripresentato anche nell’ultimo anno, sul tema della prescrizione come sulle risposte all’emergenza pandemica, con la magistratura favorevole allo strumento del processo a distanza e l’avvocatura fortemente contraria.
Lo scontro ha impedito, soprattutto nelle sedi caratterizzate da particolare animosità dei rapporti, un sereno dialogo sui concreti vantaggi e sull’accettabilità di alcune soluzione condivise. La rincorsa, senza limiti né condizioni, di soluzioni che si ritengono in un certo momento politicamente corrette o comunque conformi al sentire di un gruppo sociale determinato, può comportare danni gravi nell’opinione pubblica ma anche all’interno dei singoli uffici con conseguente perdita di coesione e unità; il problema è particolarmente sentito negli uffici requirenti dove i magistrati sono abituati a discutere e condividere schemi di attività e programmi in misura maggiore di quanto accade negli uffici giudicanti. Tornando al recupero di autorevolezza e credibilità, la situazione inoltre potrebbe migliorare se i magistrati riuscissero a ritagliarsi un equilibrato ruolo di tecnici del diritto, se in sostanza fosse rivalutato l’aspetto tecnico del nostro lavoro, anche in contrapposizione a taluni eccessi di quello che mi pare possa essere definito eccessivo tecnicismo.
A mio avviso è tecnicismo ad esempio abbandonarsi all’idea che lo strumento informatico possa risolvere la maggior parte dei problemi e soprattutto che gli esperti informatici possano fare a meno del costante apporto dei giuristi nel disegnare le linee delle nuove proposte nel settore giustizia; tecnicismo è pensare di ridurre i tempi dei procedimenti senza una visione unitaria del procedimento che affronti i molti problemi legati anche alla efficienza della fase delle indagini. Dalla sopravvalutazione della propria funzione e dello stesso ruolo della tecnica deriva inoltre l’idea scorretta secondo la quale tutte le controversie possono e devono trovare una soluzione in ambito giudiziario, impostazione che conduce a inaccettabili dilatazioni dei tempi processuali ed anche inevitabilmente ad uno scadimento della qualità del lavoro svolto. Come riconosciuto da autorevole dottrina ”la situazione nella quale si trova la giustizia penale è di grande inflazione quanto a numero dei reati in astratto, e di eccessivo carico giudiziario quanto a fatti concreti da accertare”. E ancora “l’ossessione penalistica ha occupato quotidiani, politiche e media al punto che introdurre un nuovo reato, criminalizzare, è stato visto come un atto socialmente positivo, da propagandare alla stampa e all’opinione pubblica come decisione premiante perché protettiva, mentre abolirlo, anche solo parzialmente, è parso una sorta di attentato alla giustizia o al sentimento di sicurezza collettiva”. Un testo legislativo chiaro e corretto è la prima condizione per l’indispensabile azione di informazione e persuasione nei confronti dei cittadini ricordando che non è solo e non è tanto la minaccia della sanzione a rendere le regole effettive, ma anzitutto la comprensione delle medesime ed il rispetto dell’Autorità che le ha imposte. La sanzione ci deve essere, ma è l’estrema ratio: le regole funzionano se la collettività le accetta e non le considera un corpo estraneo, un’imposizione a cui sottrarsi appena possibile.
Ugualmente è scorretto e pericoloso ritenere che l’esito della attività giudiziaria sia direttamente ed esclusivamente collegato a compiti di prevenzione generale che, in un paese evoluto e complesso come il nostro, soprattutto nelle materie che incidono su diritti fondamentali quali l’integrità fisica e la libertà sessuale, coinvolgono anche altri elementi della formazione individuale, dalla scuola, alla famiglia, al rapporto fra i generi.
 - Fine prima parte -

 
Powered by Main Street Modena